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    Fidel, una “riflessione” dalle caverne

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    By Ubre Blanca on 29 Marzo 2016 cuba-usa, leggere

    Nei giorni scorsi, nel commentare il significato e la portata della ‘storica’ visita di Obama a Cuba, non pochi avevano fatto notare come la totale assenza di Fidel Castro in ciascuna delle fasi – protocollari o meno – dell’evento, a tutti gli effetti fosse la prova provata dell’ormai pressoché totale irrilevanza politica di quello che, fino al 2008, era stato l’indiscusso ‘líder máximo’ della rivoluzione cubana. Ma a smentire questa drastica e frettolosa interpretazione di tanta contumacia – o, chissà, a confermarla smentendola – è giunta ieri, pubblicata in grande rilievo dal Granma e da tutti i media governativi cubani, una nuova ‘riflessione del compañero Fidel’. Ovvero: uno di degli articoli attraverso i quali – sempre più raramente, negli ultimi tempi – l’ex ‘comandante en jefe’ ha provveduto a far conoscere la sua opinione sulle cose di Cuba e del mondo dopo il suo forzato ritiro dalla vita pubblica per ragioni di salute. Motivo dello scritto (intitolato ‘El hermano Obama’, il fratello Obama): rispondere – in termini non esattamente fraterni – al discorso che il presidente Usa ha tenuto martedì scorso nel Gran Teatro dell’Avana.

    Come in molte altre delle sue ‘riflessioni’, Fidel Castro – o meglio: quest’ultima e senile versione di quello che fu indiscutibilmente, nel bene e nel male, uno dei più grandi leader politici del secolo XX – segue un percorso assai divagante ed a tratti quasi incomprensibile, da un lato perdendosi dietro ricordi ed aneddoti la cui logica e funzionalità non sempre è facile cogliere e, dall’altro, riproponendo in questo marasma (ed ora senza lo schermo del suo personale carisma) quelli che sempre furono i tratti più oscuri della sua un tempo chilometrica ma affascinante retorica. Vale a dire: un’esibizione d’enciclopedica sapienza pronta sfociare, non solo in una piuttosto tediosa forma di pedanteria, ma anche in una (politicamente nefasta, come dimostra tutta la storia della rivoluzione cubana) pretesa d’onniscienza. E tuttavia – pur non resistendo alla tentazione d’una cavillosa e confusa premessa storico-filosofica sui ‘conquistadores’, sul significato del turismo di massa e sul fatto che ‘la nostra vita non è che una frazione storica di secondo’ – un paio d’assai essenziali cose Fidel le fa infine e con molta chiarezza capire. La prima: che il discorso di Obama non gli è piaciuto. E, la seconda (alla prima ovviamente legata): che ancor meno gli piace il processo politico che di quel discorso è, insieme, la premessa ed il fine.

    Che cosa, in particolare, non è piaciuto a Fidel? Due sono le frasi del discorso di Obama che l’hanno contrariato. La prima è quella che rammenta come, a dispetto, delle molte cose che dividono e contrappongono i due paesi, gli Stati Uniti e Cuba vantino entrambi, alle proprie radici, una rivoluzione anticoloniale ed una società costruita, in parte, dal lavoro di schiavi importati a forza dall’Africa (una ‘eredità fatta di schiavi e di schiavisti’, aveva detto Obama). La seconda (e più importante) è quella che invita a non restare prigionieri del passato ed a guardare insieme ad un futuro di speranza o ‘…a quello che possiamo fare insieme come amici, come famiglia, come vicini…’. Dura ed irata la risposta di Fidel: ‘…E allora quelli che sono morti in attacchi mercenari a navi e porti cubani – si chiede definendo sardonicamente ‘almibaradas’, sciroppose, le parole del presidente Usa -, e allora l’aereo di linea fatto esplodere in volo (il riferimento è all’attentato contro volo 455 di Cubana de Aviación consumatosi nel 1976 e costato 73 vittime n.d.r.), e i molteplici atti di violenza e di forza?…’.

    Fidel vanta ovviamente, nel suo argomentare (o, almeno fin dove il suo argomentare s’intende), qualche ragione di fondo. Perché è vero, dal punto di vista storico, che quella tra Cuba e gli Usa non è mai stata, semplicemente, una relazione tra paesi con due diverse visioni del mondo, bensì una relazione tra oppresso e oppressore. Resta però il fatto che – anche in virtù di queste ragioni, paradossalmente – le sue parole sembrano giungere dalle caverne d’un passato nel quale la Storia cessa d’essere uno strumento per capire quel che fu, quel che è e quel che deve essere, per trasformarsi in una tignosa e sterile forma di rivendicazione, una strada senza uscita lungo la quale, oltretutto, Fidel troppo facilmente dimentica i non pochi ‘…e allora?’, ai quali toccherebbe a lui rispondere, non ad Obama, ma ai cubani che ha governato come un re assoluto per oltre mezzo secolo.

    E davvero penosa risuona, in questo senso, la molto autarchica chiusura della sua ‘riflessione’. ‘…Siamo capaci – scrive Fidel, evidentemente sottolineando quanto poco gli prema la fine dell’embargo – di produrre gli alimenti e le ricchezze materiali di cui abbiamo bisogno, grazie all’impegno e l’intelligenza del nostro popolo. Non abbiamo bisogno che l’Impero ci regali alcunché…’. Davvero? La Cuba d’oggi deve, nonstante la straordinaria fertilità della sua terra, importare l’80 per cento delle cose che mangia. Ed è un fatto – un tristissimo fatto – che la sua agricoltura produce di questi tempi, dopo 57 anni di rivoluzione, molto meno di quel che produceva ai tempi di Batista. Colpa anche dell’embargo, certo, ma soprattutto d’una politica agricola disastrosa, in rilevantissima parte determinata – in quella che è a tutti gli effetti stata una vera e propria galleria degli orrori – proprio dalla pretesa ‘onniscienza’ del grande capo.

    La vera domanda che la ‘riflessione’ di Fidel propone è in fondo proprio questa: quanto pesa oggi quel che resta di quella ‘onniscienza’? Dalla risposta dipende il futuro delle relazioni tra Usa e Cuba. Ed il ruolo di Cuba nel mondo.

     

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