La “notizia” – una notizia da diffondere obbligatoriamente “tra virgolette” – è questa: Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d’America, ha firmato ieri il decreto che rinnova per un altro anno – vale a dire, fino al 20 settembre del 2022 – l’embargo contro Cuba. E queste sono le due molto ovvie ragioni per le quali assolutamente indispensabile diventa l’uso del virgolettato. La “notizia” non è, in realtà, una notizia ed il “decreto” che di quella notizia è l’oggetto non è, in effetti, un decreto. Perché? Semplice: perché l’embargo al quale quella “non-notizia” e quel “non-decreto” fanno riferimento non è, in alcun modo, il “vero” embargo (vero, nel senso di in grado di produrre vere, palpabili conseguenze).
Quello che Joe Biden ha firmato ieri non è, infatti, che il memorandum con il quale, ogni anno da 59 anni, tutti i presidenti succedutisi in quel di 1600 Pennsylvania Avenue, rinnovano l’uso, nei confronti di Cuba, del Trading with the Enemy Act, una legge che approvata nel 1917, in piena Grande Guerra, consente, a discrezione del presidente, l’uso di sanzioni commerciali ai danni di nazioni considerate nemiche. Insomma: un’anticaglia, una sorta di fossile giuridico che – di per sé inerte, come ogni fossile – sopravvive solo grazie al fatto che nel ’62, nel pieno di un’altra guerra (quella denominata “Fredda”, finita trent’anni orsono) l’allora presidente, Ike Eisenhower, non senza buone (o, più propriamente, cattive) ragioni, individuò nella rivoluzione cubana (oggi, di fatto, un altro fossile) un “nemico” da punire con un (nelle intenzioni, non nei fatti) asfissiante assedio economico. E, ancor più, grazie al fatto che, nel 1996, archiviata la Guerra Fredda, questo reperto archeologico è stato, per così dire, “eternizzato” – o, più concretamente, trasformato in una mostruosità giuridica che solo un voto del Congresso può cancellare – da una legge, la cosiddetta Helms-Burton, che, essendo in piena funzione, un fossile non si può in alcun modo definire. Ma che di certo – volendo usare le parole di un ex-presidente Usa, Jimmy Carter – fu e resta, oltre che una storica ingiustizia, “il più stupido provvedimento legislativo” mai prodotto dal Congresso e mai sottoscritto da un presidente (Bill Clinton, nel caso specifico) degli Stati Uniti d’America.
Insomma: Joe Biden avrebbe potuto tranquillamente non firmare quella proroga – decisione che, tuttavia, sarebbe stata di non piccolo significato simbolico – ed all’atto pratico nulla sarebbe cambiato. Sicché la domanda – la stessa che si ripropone ogniqualvolta Cuba torni alla ribalta della cronaca, come accaduto dopo le proteste dell’11 luglio – rimane sempre la medesima: come ha potuto tanta stupidità (una stupidità oltretutto sancita, ogni anno degli ultimi trent’anni e passa, da un pressoché unanime voto dell’Assemblea Generale dell’Onu) non solo sopravvivere alla propria, già di per sé alquanto ignobile ragion d’essere per ben più di mezzo secolo, ma addirittura “resuscitare” – oltretutto in ancor più stupide e crudeli vesti, grazie ad un presidente, Donald J. Trump, che della stupidità e della crudeltà ha fatto una sorta di marchio di fabbrica – dopo che, nel 2015, aprendo il processo di “normalizzazione” delle relazioni con Cuba, Barack Obama ne aveva (almeno formalmente, non potendo cancellare la Helms-Burton) decretato la morte?
Un test di purezza “double face”
È una lunga storia, quella dell’embargo. Lunga, lineare ed al tempo stesso contorta. Lineare, perché “el criminal bloqueo”, come lo chiamano a Cuba, ha per l’appunto, percorso senza sobbalzi diversi decenni di storia. E contorta perché immancabilmente tortuose e sbilenche sono sempre state – dal punto di vista storico ed a fronte della sua provata stupidità – le motivazioni della sua “indistruttibilità”. Per raccontarla ci vorrebbe un libro (e, di fatto, molti ottimi libri sono stati scritti sul tema), magari partendo dai primi anni ’70, quando – ancora in piena Guerra Fredda e, in buona misura, proprio in virtù delle esigenze della Guerra Fredda – già chiarissime, agli occhi del più illustre rappresentante della “realpolitik” USA, Henry Kissinger, apparivano le buone ragioni per seppellire l’embargo e neutralizzare l’influenza sovietica a Cuba (tutte le ipotesi di normalizzazione svanirono, in quel caso, per l’intervento cubano in Angola). Volendo però riassumere i perché d’una tanto antistorica, tragica e ridicola perduranza, questo si può dire. L’embargo è, a dispetto di tutto, ancora dannosamente vivo perché non è più, e da tempo, un provvedimento politico. È piuttosto un dogma, un atto di fede, una sorta di test di purezza “double-face”, comunista ed anticomunista, trasfiguratosi in un reciproco alibi, in un mostro che si morde la coda e che, mordendosi, ha imbalsamato il tempo. L’embargo sopravvive a se stesso perché tanto il regime castrista, quanto le rappresentanze politiche dell’esilio cubano negli Stati Uniti, desiderano che sopravviva. Il primo perché proprio nell’eroica resistenza all’assedio del “Golia del nord”, incontra la propria ragion d’essere e, insieme, la giustificazione di tutti i propri fallimenti. Le seconde, per ragioni specularmente opposte. Ovvero: perché anche per loro l’embargo è diventato, nel tempo, una comoda illusione, una scorciatoia, un modo, patetico e feroce di congelare la Storia e la realtà d’una sconfitta (quella del ’59) le cui ragioni più profonde ragioni si rifiutano – anch’esse per istinto di sopravvivenza – di analizzare.
Ma il motivo più vero – il più vero perché il più pragmatico – della sopravvivenza dell’embargo è, notoriamente, di natura geografico-elettorale. Semplicemente: l’embargo sopravvive – oltre ogni logica, ogni decenza e, persino, oltre sé stesso – perché quelle illusioni, quelle scorciatoie e quegli alibi vivono in un punto del sistema elettorale Usa (quello degli “electoral college”, un altro esempio di archeologia politica sopravvissuto oltre ogni logica ed ogni decenza) che ha regalato all’esilio cubano della Florida (uno dei più in bilico tra gli stati in bilico) un potere smisurato e determinante al di là delle sue dimensioni (infime nel contesto generale) e del suo prestigio politico (decisamente non alle stelle) al di fuori della “campana di vetro” di Miami.
La spiegazione più profonda (o meglio, la più superficiale, ma anche la più effettiva) della decisione (o non decisione) di Joe Biden va ricercata qui, nella opportunistica banalità di questo stato di cose. E, ancor più, nella vicinanza delle elezioni di mezzo-termine. Perché questo è, in ultima analisi e per tutte le ragioni di cui sopra, l’embargo contro Cuba: un “bloqueo” nei confronti dell’intelligenza, della storia, del tempo e del futuro, un coagulo arterioso che impedisce il flusso di sangue in diresione del cuore e del cervello. È una coazione a ripetere, un’infermità cronica, la condanna ad un eterno presente che nega ai cubani – tutti i cubani, compresi quelli che fuori dell’isola sostengono l’embargo – ogni relazione col futuro. Oggi più che mai è l’embargo – al di là d’ogni opinione sul castrismo o l’anticastrismo – il vero ostacolo al cambiamento.