Cuba era, solo qualche mese fa, un esempio per il mondo. Ora è precipitata agli ultimi posti nella classifica della lotta anti-Covid. Cos’è successo?
Non più di quattro mesi fa The Lancet, una delle più antiche e prestigiose riviste mediche del mondo, pubblicamente elogiava in un suo articolo l’efficacia della risposta cubana alla pandemia. E lo faceva sulla base di molto solide argomentazioni, puntualmente estratte tanto dalle cronache della quotidiana battaglia anti-Covid, quanto dalla storia d’un sistema di salute giudicato, al di là d’ogni giudizio politico, tra i migliori al mondo. Grazie alla capillarità della sua organizzazione sanitaria, sosteneva la rivista, Cuba era riuscita a controllare la diffusione del virus.
E non solo poteva vantare invidiabili statistiche in materia di morti e di contagi, ma si preparava – caso unico, e per molti aspetti “miracoloso” considerate le scarse risorse del paese – a lanciare una campagna d\immunizzazione con vaccini di fabbricazione propria.
Che cosa resta oggi – non più d’una quindicina di settimane più tardi – di quel “miracolo”? Tutto e niente. Tutto, perché il sistema sanitario cubano – frutto d’una rivoluzione che sempre ha posto la salute pubblica al centro dei suoi programmi – resta ovviamente quello che era ai tempi, tutt’altro che remoti, della pubblicazione di Lancet. E, allo stesso tempo, niente. Perché nessuna delle “splendide cifre” elencate dalla rivista britannica è sopravvissuta alla prova di questi ultimi mesi. Per quanto ancora non chiarissima sia la loro efficacia, specie a fronte delle ultime varianti del Covid, i vaccini di produzione propria (5 di cui due già operativi) restano un’eccezionale e “prodigiosa” realtà. Ma i dati dei contagi e della mortalità sono oggi, a Cuba, tra i peggiori al mondo. E il sistema sanitario – il medesimo che Lancet aveva portato ad esempio – appare al collasso in molti dei suoi punti vitali. Che cosa è accaduto?
Di nuovo: è accaduto di tutto e non è accaduto niente. Di tutto perché la riapertura del paese al turismo – indispensabile per evitare il crollo di un’economia che già aveva perduto l’11% del suo valore– ha spalancato le porte alle ultime e più contagiose varianti del Covid. E, nel contempo, non è accaduto niente perché il sistema sanitario oggi al collasso è esattamente il medesimo che la scorsa primavera veniva pressoché universalmente elogiato. E, rimasto eguale a se stesso, quel sistema presenta oggi come ieri – e come in pressoché tutti gli aspetti della realtà cubana – due facce contrapposte. Da un lato l’eccellenza scientifica e, dall’altro, la realtà di strutture obsolete, d’una cronica carestia materiale, ora esaltata dalla pandemia, dovuta in parte alle conseguenze dell’embargo Usa e in ancor più grande parte alle intrinseche contraddizioni del sistema economico cubano.
Perché è vero: Cuba ha negli ultimi 60 anni sviluppato, per volontà di Fidel, un settore biotecnologico e, più in generale, una cultura medica che nulla ha da invidiare al primo mondo. Ma chi entra in un ospedale per qualche operazione chirurgica di routine – un’appendicite, tanto per dire – non di rado deve portarsi le lenzuola da casa. E se Cuba è in grado di progettare e produrre vaccini, spesso le mancano le siringhe per iniettarli.
La colpa? Sicuramente anche d’un embargo che, per la sua crudele ed obsoleta stupidità, da almeno un paio di decenni il mondo intero condanna. E anche – soprattutto, in buona misura – d’un sistema che, dietro l’embargo, usa nascondere i propri vizi strutturali nonché, nella costante riproduzione di questi vizi, un’immobilità scandita da un continuo andirivieni di mezze riforme e di piene controriforme, di porte che si aprono e che si richiudono, quasi sempre sbattute in faccia ai riformati e ai riformandi.
Venendo alle cronache dei giorni che stiamo vivendo: alla metà di luglio, pochi giorni dopo l’ondata di proteste che aveva scosso il paese, il governo ha cercato d’allentare la tensione annunciando, tra le altre cose, ulteriori aperture nei confronti del cosiddetto “lavoro per conto proprio” e delle Mpymes. Ovvero: delle micro, piccole e medie imprese, ora autorizzate ad avere fino a 100 dipendenti. Una riforma? L’inizio d’un nuovo cammino? Difficile crederlo. Se fa testo la storia di Cuba si tratta, piuttosto, d’un ennesimo episodio del “tira e molla” con il quale i governi rivoluzionari hanno, nell’ultimo mezzo secolo, cercato a tratti d’attenuare gli asfissianti effetti d’una delle più importanti (e catastrofiche) scelte di Fidel: quelli provocati dalla “Ofensiva revolucionaria” che il “líder maximo” lanciò nel 1968 statalizzando anche la più minuscola attività economica.
Quello che la “offensiva rivoluzionaria” ha regalato a Cuba
In che modo Fidel intendesse costruire il socialismo confiscando rasoi e spazzole per barbieri, coltelli da macellaio e seghe da falegname, non è mai stato chiaro. Chiarissimo è invece il fatto che da quella “Ofensiva” sono scaturite – come collaterali effetti d’una mal concepita ricerca dell’eguaglianza – due concatenate realtà: un’economia assolutamente improduttiva e una società basata sul più totale, ferreo e “ricattatorio” controllo politico. Ricattatorio nel classico senso del “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”. Laddove il mestolo doveva restare esclusivamente nelle mani d’un governo a sua volta totalmente controllato dal “Comandante en jefe”.
L’origine, tanto delle proteste dell’11 luglio quanto del tira e molla recentemente culminato in un allargamento delle funzioni dei Mpymes, va cercata qui. E da qui occorre partire per cogliere il ciclico andamento della politica cubana. E le due facce che questi cicli definiscono. Nei primi anni ’80, dopo la tragedia dell’esodo del Mariel (125.000 anime imbarcatesi in direzione Usa in un paio di settimane) il sistema aprì uno spiraglio legalizzando minime forme di “trabajo por cuenta propria” e aprendo un “mercado libre campesino” dove i contadini potevano vendere i prodotti non direttamente (e con somma inefficienza) commercializzati dallo Stato. E questo spiraglio poco più d’un lustro più tardi Fidel richiuse, quando ritenne che da quella fessura – poi di nuovo riaperta nel ’94, al culmine del cosiddetto “periodo especial” – potesse, come uno spiffero letale, passare l’aria riformista della perestroika gorbachoviana.
Chiudi e apri, apri e chiudi. Apri quando la pentola sta per scoppiare. E chiudi quando avverti che vapore che fuoriesce dalla valvola minaccia la stabilità del sistema di controllo sociale. È la lunga storia d’una storia che si ripete. E che vale la pena d’esser raccontata più in dettaglio. Lo farò in un prossimo post.