Lo scorso 10 aprile – non per caso giorno del 150esimo anniversario della Carta Magna di Guáimaro, quella che Carlos Manuel de Céspedes e i suoi seguaci stilarono agli albori della lotta per l’indipendenza – Cuba ha ufficialmente varato una Costituzione tutta nuova, pensata, scritta e approvata via plebiscito per adeguarsi ai tempi che arrivano. E, forte di questa novità, va ora marciando orgogliosa e decisa verso il proprio passato. O per meglio dire, verso l’eterno presente – una lunga linea grigia, senza passato né futuro – nel quale una rivoluzione trasformatasi in arte della sopravvivenza ha da almeno un ventennio e con alti e bassi racchiuso se stessa. Volendo anzi esser ancor più precisi: verso il non breve segmento di questo eterno presente ricordato dagli annali come – Fidel Castro dixit – “periodo especial en tiempos de paz”.
Il periodo speciale fu, come certo ricorderanno tutti coloro che hanno un minimo di conoscenza della Cuba castrista, il decennio (o giù di lì) che seguì il dissolversi dell’impero sovietico, al quale la prima Costituzione della Cuba rivoluzionaria (quella entrata in vigore nel 1976) aveva giurato “eterna amistad”, amicizia eterna. E con più d’una buona ragione, visto che l’economia cubana, finalmente liberatasi dall’invadenza avida del vicino del Nord – e per questo da quel vicino accerchiata e perseguitata – proprio dalla generosità di mamma Urss per un buon 50% dipendeva. Tanto che – come impietose riportano le statistiche e le rimembranze dei cubani che il “periodo speciale” ebbero la ventura di misurarlo a occhio e a stomaco – esattamente del 50% fu il verticale crollo del Pil tra il 1992 e il 1995.
Il “periodo especial en tiempos de paz” è finito, gradualmente, con l’inizio del nuovo millennio e con il sorgere d’una nuova – anche se non costituzionalmente sancita – forma di “eterna amistad”: quella, ideologica e battezzata con petrolio, che ancor oggi – seppur in termini inevitabilmente sempre più precari – lega Cuba al Venezuela “bolivariano”, o a quel che ne resta. Il suo fantasma non ha però mai cessato di aggirarsi come un cupo presentimento tra gli scaffali dei mercati e nei dintorni delle mense – da sempre, periodo speciale o meno, piuttosto mal imbandite – di un Paese il cui modello economico iperstatalista e improduttivo è costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, in un perenne stato di crisi.
Ed è proprio nel bel mezzo del discorso con il quale, il 10 aprile, Raúl Castro ha annunciato l’entrata in vigore della nuova Costituzione, che questo fantasma è riapparso, temuto e atteso. Prevedibilmente evocato non per annunciare, ma per negare un proprio ritorno in vita. Rispetto ai primi anni 90, ha detto infatti Raúl, “del tutto diversa è oggi la situazione in quanto a diversificazione dell’economia”. Ma ha subito tetramente aggiunto: “Dobbiamo esser però coscienti del fatto che stiamo affrontando problemi addizionali e che le cose potrebbero aggravarsi nel giro di qualche mese. Dobbiamo essere pronti a fronteggiare la peggior variante”. I cubani hanno, senza troppo sforzo, colto l’antifona: un “periodo speciale 2.0” sta bussando alla porta.
Quali siano questi “problemi addizionali” e quale sia “la peggior variante da affrontare” è, infatti, fin troppo chiaro. Il Venezuela “bolivariano e socialista” – formula dietro la quale si cela la realtà del più inetto, corrotto e autoritario governo nella storia della patria di Simon Bolívar – è precipitato in una crisi economica, politica e morale (della quale Cuba è causa e vittima al tempo stesso) sempre più simile a un cancro incurabile (ma non terminale, il che lascia intravvedere una molto prolungata sofferenza). Ed estremamente difficile è prevedere per quanto tempo potrà continuare a fornire, in cambio di servizi medici che da tempo hanno cessato di funzionare, i 70mila barili di petrolio al giorno (erano 100mila fino al 2016) che per Cuba sono probabilmente un’insostituibile linfa energetica.
Negli Stati Uniti, nel contempo, Donald Trump non ha solo brutalmente troncato la “storica svolta” inaugurata da Barack Obama con la riapertura delle relazioni diplomatiche e con la visita all’Avana del marzo 2016. Ma ha anche rispolverato – nel bluff di una tragicomica riedizione della vecchia gunboat diplomacy, la diplomazia delle cannoniere – le parti più ottuse di quella che è probabilmente la più stolta delle leggi mai promulgate in materia di relazioni internazionali dagli Usa. Ovvero: la Helms-Burton, ritardato parto del più anacronistico anticomunismo, che nel 1996 trasformò lo storico e controproducente embargo contro Cuba – fino ad allora un semplice decreto presidenziale – in una legge federale: in quanto tale, cancellabile. Cosa, sic stantibus rebus, pressoché impossibile solo con un voto dei due rami del Congresso.
Una legge tanto “stupida” – così la definì, molto efficacemente, l’ex-presidente Jimmy Carter – che in alcune sue parti, inapplicabili perché in contrasto con il diritto internazionale, ha dovuto essere fin qui sistematicamente “sospesa” semestre dopo semestre per decisione presidenziale. E proprio questo è quel che Trump ha ora annunciato: la fine della sospensione del famigerato articolo III, che consente a chiunque di denunciare presso tribunali statunitensi chi “traffica” in beni a suo tempo confiscati dalla rivoluzione cubana.
Così stanno le cose. Con la nuova Costituzione la Cuba “rivoluzionaria” guarda avanti (anche se, è appena il caso di ricordarlo, non oltre il “naso” della propria natura totalitaria). Ma è costretta, trascinata dalla logica dei tempi, a camminare all’indietro, verso gli anni più bui della sua storia. Con quali effetti?
Il periodo especial 1.0 aveva, com’è noto, lasciato nei palati cubani gusti unici al mondo e non esattamente gradevoli, da allora entrati nella memoria collettiva – destino questo comune a quasi tutti i cattivi ricordi – in forma di barzelletta. Quali gusti? Quello, giusto per dirne uno, del “picadillo de soya” o “extendido”, un misto di pochissima (o più probabilmente nessuna) carne tritata e, per l’appunto, di germi di soia. Gusto che subito si tradusse in uno slogan, “soyalismo o muerte”, ancor oggi frequentemente ripetuto, specie all’ora del pranzo. O quello, volendo continuare con gli esempi, del “bistec de toronja”, la bistecca di pompelmo, pietanza da allora divenuta grottesco simbolo di carestia (anche se arricchita con uova, articolo questo pressoché irreperibile durante il primo periodo speciale, tale ricetta ha in seguito acquisito lontano da Cuba una certa popolarità tra i vegetariani meno radicali).
Non si può ovviamente escludere che, a periodo especial riaperto, il bistec de toronja e il picadillo de soya facciano – insieme ai molti altri intingoli a base di soia che marcarono l’1.0 – una sgradita riapparizione. Ma per il momento i sapori che prevalgono (con relative barzellette) sono altri e, per molti aspetti, ancor più surreali. Trattasi dei sapori, ai più sconosciuti, della carne (e delle uova) di struzzo, della carne della jutía conga (un roditore autoctono cubano in via d’estinzione) e della carne di coccodrillo.
A deporre metaforicamente sulla tavola dei cubani questi tre sapori ha provveduto un personaggio che è, a tutti gli effetti, nobilissima parte della storia della rivoluzione. Il suo nome è generale Guillermo García Frías, e gli annali rammentano come nei tempi gloriosi proprio lui fu, dopo lo sbarco del Granma, il primo campesino entrato nell’Ejercito Rebelde di Fidel Castro. Anzi: come fu proprio lui, profondo conoscitore del territorio, a condurre i pochi ribelli sopravvissuti alla traversata e alla disfatta di Alegría del Pío, nelle più sicure profondità della Sierra Maestra.
Oggi il generale e “Comandante della Rivoluzione” ha la veneranda età di anni 91 ed è responsabile della Empresa Nacional para la Protección de la Flora y la Fauna, veste in cui giorni fa ha partecipato a una puntata della Mesa redonda (“tavola rotonda”, storica trasmissione della tv cubana) per presentare un audace progetto teso a far fronte, in vista dei tempi duri, alla tradizionale scarsità di carne. Tale progetto – già in avanzata fase d’attuazione – prevede per l’appunto la “coltivazione” (proprio così l’ha definita il generale) di struzzi, jutía conga e coccodrilli. Struzzi soprattutto, considerato che la loro carne ha qualità proteiche molto superiori a quella bovina; e che, producendo gli struzzi grandi quantità di uova (anch’esse commestibili), hanno una capacità riproduttiva molto superiore a quella delle vacche.
Il successo della trasmissione è stato immediato e travolgente. Se successo è lecito chiamare l’istantaneo e spettacolare ingresso dell’esibizione televisiva nel tritacarne (carne di struzzo, nel caso specifico) dei social network. Il tutto, ovviamente, in una valanga di meme, arma non disponibile durante il periodo speciale 1.0. Alcuni esempi: un’impagabile “conga del avestruz” e la video-sintesi del discorso del generale. Un consiglio per quanti hanno difficoltà a capire lo spagnolo: andate al minuto 2.23, laddove la telecamera s’abbandona a una carrellata sul pubblico della Mesa redonda, peraltro politicamente molto selezionato. Le facce attonite di coloro che ascoltano il generale valgono più di mille parole.
Perché tanto sarcasmo? Dopotutto García Frías non ha detto cose assurde. Anzi. La carne di struzzo vanta davvero le eccellenti qualità, non solo proteiche, decantate dallo stagionato eroe rivoluzionario. E la carne della jutía conga è non solo commestibile, ma nella sua rarità – vedi Slow Food – materiale da haute cuisine, roba per raffinatissimi palati e per portafogli rigonfi.
Dunque, a che si deve questo torrenziale flusso di meme? In parte alla molto vetusta immagine del generale (a suo modo anche lui un “fantasma”, come il periodo especial). In parte all’uso, in verità bizzarro, del verbo “coltivare” (da uno dei meme: “quante volte al giorno bisogna annaffiare uno struzzo?”). Ma un’altra è, in realtà, la ragione vera e più profonda. Il regime che va oggi prospettando “coltivazioni” di struzzi e jutía conga è il medesimo che per meriti propri, non a causa della pur assai reale e dolorosa prepotenza dell’embargo, ha di fatto distrutto le “coltivazioni” di vacche, buoi, polli e maiali sull’isola, che prima della rivoluzione (pur nell’ingiustizia, nella diseguaglianza e nella corruzione che dominava quello che di fatto non era che un protettorato degli Usa, o il loro “luna park” come qualcuno diceva) vantava, almeno in materia di carne, una piena autonomia alimentare.
Narrano infatti le cifre riportate dall’Anuario Estadistico de Cuba come, nell’anno del signore 1958 – quello che, poco prima della mezzanotte del suo ultimo giorno, avrebbe visto la fuga del tiranno Fulgencio Batista – i capi di bestiame fossero, nell’isola, qualcosina più d’uno per ciascuno dei sei milioni d’abitanti d’allora. Più esattamente: 6.325.000, dei quali 940.000 erano vacche da latte, più che sufficienti per garantire – garantire, va da sé, “statisticamente”, in una situazione di grandi diseguaglianze economico-sociali – tutta la carne ed i prodotti caseari di cui il paese aveva bisogno.
Già nel 1989, alle soglie del primo “periodo speciale”, quel rapporto s’era tuttavia ridotto a 1 a 2, in una situazione nella quale la carne – in particolare quella di vitello e quella di maiale, le più tradizionalmente bramate dai cubani – era indubbiamente, rispetto al passato, molto più equamente distribuita tra la popolazione. Cosa, questa, non particolarmente complessa, visto che, a conti fatti, si trattava di redistribuire il nulla, essendo la carne di vitello e di maiale già in quegli anni reperibile, in pratica, solo nei ristoranti o nei mercati riservati, in una logica di vero e proprio apartheid, ai turisti stranieri. Undici anni più tardi, iniziato il nuovo millennio e superate le forche caudine del primo periodo speciale, quel rapporto era diventato di 1 ogni 3. E tale è ancor oggi, mentre il “periodo especial 2.0” bussa alla porta. In tutto il settore agroalimentare, Cuba produce oggi – non solo in termini relativi, ma in termini assoluti – molto meno di quel che produceva prima della rivoluzione.
Le ragioni di questo disastro? La versione ufficiale vuole, ovviamente, che tanta scarsità – contrapposta alla diseguale abbondanza dei tempi pre-rivoluzione – non sia che il riflesso d’una gloriosa lotta di resistenza all’assedio dell’Impero del Nord. E va da sé che, se valutata in senso lato (molto lato) non si tratta affatto (o soltanto) d’una invenzione propagandistica. L’assedio è, infatti, non “una” realtà, ma, per molti aspetti, “la” realtà della storia della Cuba castrista. E tuttavia molto reali, anzi molto più reali e visibili, molto più dirette ed incriminanti – laddove di delitti contro la disponibilità di carne, latte ed alimenti in genere si tratta – sono le impronte digitali ovunque lasciate da quello che, del regime castrista, è stato un elemento fondante: il culto della personalità. E, più specificamente: della pretesa ed incontestabile onniscienza – in ogni campo, ma in particolare in quello agricolo-alimentare – dell’indiscusso “líder máximo”, Fidel Castro Ruz. Ovvero: del lato più oscuro – tragicomico, come tragicomico è, in ultima analisi, ogni culto della personalità – d’un personaggio che, pure, è senza dubbio annoverabile tra i più significativi leader politici del XX secolo.
La carne di struzzo e di jutía conga osannata giorni fa durante la “Mesa redonda” dall’attempato generale García Frías, è entrata nelle mente del “cubano de a pie”, dell’uomo della strada, come, per l’appunto, l’ultimo atto d’una lunga storia, grandiosa e ridicola al tempo stesso, lungo la quale s’incontrano, in una forse unica miscela di titanica utopia e di dispotica saccenteria, tutti i rovinosi relitti di idee mirabolanti ed immancabilmente svanite nel nulla della propria grandeur. C’è, alla base di tutto, la realtà d’una riforma agraria basata sulla collettivizzazione delle terre (contro, tra l’altro, quello ch’era il programma originale del movimento rivoluzionario). C’è l’epica – ed epicamente fallimentare – storia della “zafra dei 10 milioni” nel 1970. Così come ancor prima, nel 1968, c’era stata – sempre partorita dall’insindacabile mente di Fidel – la storia del “cordón de la Habana” che, nel tentativo di coltivare in pianura, nelle periferia della capitale, il “caffè caturra” (una variante dell’arabica), distrusse gran parte dell’esistente produzione di frutta. Ci sono, sparse ovunque, le reliquie della volontà di creare – un costosissimo pallino, questo, del “comandante en jefe” – una nuova e superlativa razza bovina in grado, non solo di soddisfare la domanda interna di latte e carne, ma di trasformare Cuba in una planetaria potenza casearia.
Alla fine di questa storia, ci sono, di nuovo, il “picadillo extendido” e il “bistec de toronja”, molto cubana variante di quella che, da altre parti, si chiama “fame”. C’è l’osanna ad una carne di struzzo e di jutía conga che mai arriverà sulle tavole del cubano qualunque. E c’è un monumento che è anche, probabilmente, la più nitida metafora della Cuba castrista, della sua grandezza e della sua miseria: quello, scolpito nel marmo, che a Gerona, nella Isla de la Juventud, è stato dedicato a Ubre Blanca (mammella bianca), la vacca – un incrocio, da Fidel concepito, tra la razza Holstein, ubertosa figlia delle valli svizzere, e la razza Cebú, originaria delle aride pianure africane – che, a cavallo tra gli anni 70, frantumò, uno dopo l’altro, tutti i record mondiali di produzione di latte. Per poi andarsene senza eredi – probabilmente uccisa da un cancro causato dagli esperimenti genetici di cui era il frutto – lasciandosi alle spalle un paese nel quale il latte disponibile era (e continua ad essere) meno della metà di quello prodotto prima della rivoluzione (qui, raccontata dalla medesima Ubre, tutta la storia in italiano).
Sta dunque andando, Cuba, verso una Ubre Blanca con piume? O, per uscir di metafora, stanno tornando i più duri dei tempi duri? Pare di sì. E di questo – proprio perché non c’è niente da ridere – Cuba già ha cominciato a sghignazzare disperata.