Oggi, 13 agosto, esattamente un mese e due giorni dopo le “storiche” proteste dell’11 luglio, cade il 95esimo anniversario della nascita di Fidel Castro Ruz, il quarto da quando, ormai al tramonto dell’anno 2016, il “comandante en Jefe” è, come vuole la retorica di regime, “entrato nell’eternità”. E la ricorrenza sorprende Cuba nel bel mezzo d’un ancor indecifrabile guado, persa nella calma apparente – o nella dissimulata tensione – d’una bonaccia ancor piena dei ricordi della tempesta appena passata e, nel contempo, ancora incapace d’intuire i tempi e la forza di quella che sicuramente verrà. Una Cuba nella quale tutto è cambiato e tutto resta implacabilmente eguale a se stesso. Stesse parole, stessi gesti, stessi scenari, stesso cerimoniale.
Non sono previste celebrazioni. Ogni concentrazione di popolo è, di questi tempi, altamente sconsigliata. Un po’ perché Cuba sta attraversando il suo peggior momento da quando è esplosa la pandemia. E un po’ anche perché, dopo l’11 luglio, ogni concentrazione di popolo corre il rischio di trasmutarsi nel contrario di quello che si supponeva fosse. Ma soprattutto perché, come ricordava due giorni fa il Granma cartaceo nella sua prima pagina, lo stesso Fidel ha, ben prima di andarsene, lasciato ai suoi successori molto precise istruzioni in merito alle modalità del culto di se medesimo: niente pompose commemorazioni, niente manifestazioni, niente cortei o festività. E, in particolare, niente monumenti, busti, statue, piazze a lui intitolate, lapidi o targhe commemorative di sorta. Una scelta, questa – o meglio, un ordine – che per i seguaci del culto prevedibilmente non è altro che un’eroica testimonianza di personale modestia, una mostra d’umiltà che, a sua volta, è la prova provata dell’innata, ineguagliabile grandezza del “líder máximo”.
O che, com’è più laicamente facile arguire, della modestia non è in realtà che l’esatto opposto. Ovvero: null’altro che una maniera per far sì che – in un mondo nel quale monumenti e vie vengono, in ogni dove, dedicati ai proverbiali “cani, porci e ciabattini” – quella grandezza risplenda in una più inequivocabilmente fulgida luce. Il mito di Fidel – questa è l’essenza della liturgia – deve vivere, non nel marmo, ma nella quotidiana realtà della “sua” rivoluzione, nel respiro della Nazione che lui ha creato, nella forza (è ancora il Granma a ricordarlo), di quel “yo soy Fidel”, io sono Fidel, con il quale, nel dicembre del 2016, il “comandante en jefe” è stato accompagnato da un’enorme massa di popolo dall’Avana fino al cimitero di Santa Ifigenia a Santiago di Cuba, dove da allora riposa in un molto sobrio mausoleo la cui tondeggiante forma esplicitamente ricorda il famoso “grano de maiz”, il chicco di mais, citato in una massima attribuita all’ “Apostolo dell’Indipendenza” Josè Martí. Quello nel quale “toda la gloria del mundo cabe”, è racchiusa tutta la gloria del mondo.
Fidel è Cuba. E Cuba è Fidel. Questo vuole il culto. Questo è quello che, in questi olimpici giorni, gli atleti tornati medagliati da Tokyo hanno ricordato dedicando a Fidel le proprie vittorie. E questo è anche, sia pure in altri e meno religiosi termini, quello che dice la Storia. Fidel Castro è stato – e continua nel bene e nel male ad essere, ancor più di Martí che morì in battaglia ben prima che Cuba si liberasse dal giogo spagnolo – il personaggio centrale della formazione dello stato nazionale cubano, d’una indipendenza passata prima attraverso la battaglia contro il colonialismo spagnolo e poi contro l’imperialismo Usa. Fidel e la sua rivoluzione sono davvero, per molti e sostanziali aspetti, l’indipendenza di Cuba. Eppure se si guarda alla Cuba che, in mezzo al guado, senza cortei e senza monumenti, celebra oggi – contagiata, affamata e furente – il 95anniversario della nascita del suo fondatore, è proprio la parola “dipendenza”, o meglio, è un sovrapporsi di tre irrisolte dipendenze il fenomeno che meglio illustra il passato, il presente e il futuro dell’isola. La sua grandezza e, soprattutto ormai, le sue miserie.
La prima, molto specifica ed essenziale dipendenza – una dipendenza che, come una sorta di macchina del tempo finita in panne, riguarda tanto la Cuba di Fidel quanto la Cuba contro Fidel – è ovviamente quella dall’embargo Usa, realtà sopravvissuta, per ormai oltre mezzo secolo, alle ragioni di se stessa e riassumibile in tre semplici e concatenati aggettivi: ingiusto, obsoleto, stupido. E proprio per questo – perché ingiusto, obsoleto e stupido – da molti anni ogni anno regolarmente e pressoché plebiscitariamente condannato dalla Assemblea delle Nazioni Unite.
La seconda dipendenza è quella cronica alla quale, contraddicendo la propria ragion d’essere, la rivoluzione ha condannato l’economia cubana, prima per una sorta d’utopica – ed a suo modo nobile – ragione. E poi, molto meno nobilmente, per garantire la sopravvivenza d’un regime autoritario, incapace, per un complesso miscuglio di cause ed effetti, di creare ricchezza e libertà. Un’economia che, parafrasando la celebre teoria economica di Pietro Sraffa, produce – come ben sa chi da sei decenni vive sulla propria pelle la realtà del razionamento alimentare – dipendenza per mezzo di dipendenza.
Il “grano de maiz” che Fidel ha lasciato a Cuba non è, in realtà, quello che racchiude in sé tutta la gloria del mondo, ma è quello che l’economia cubana non è in grado di produrre e che, perlopiù importato (con i limiti imposti dall’embargo), distribuisce attraverso la famigerata “libreta” ad una popolazione che dal razionamento – del cibo e d’ogni altro bene – è a sua volta resa dipendente. E che, proprio per questo, è priva di diritti.