Payá, la verità negata

Un editoriale del Washington Post torna, a undici anni dalla morte di Oswaldo Payá, a reclamare la verità sull’incidente d’auto nel quale perse la vita il dissidente cubano

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Facendo seguito alle conclusioni d’una commissione d’inchiesta della Commissione Interamericana per i Diritti Umani – una branca indipendente della Organizzazione degli Stati Americani – un editoriale del Washington Post torna su un vecchio ed irrisolto caso: quello della morte in un incidente d’auto – casuale, come sostiene il governo cubano, o provocato, come sostengono alcuni dei protagonisti della vicenda – del dissidente cubano Oswald Payá.

Essendosi – del tutto prevedibilmente – il governo cubano rifiutato di collaborare con le indagini, e non avendo gli investigatori potuto metter piede a Cuba, va da sé che la Commissione non ha portato ad alcuna vera novità investigativa. E, nelle sue conclusioni, altro in ultima analisi non ha fatto che ribadire, sia pur in una chiave più fortemente accusatoria, i dubbi ed i numerosi lati oscuri della vicenda. Come molti ancora ricorderanno, quasi esattamente 11 anni fa, il 22 luglio del 2012, Oswaldo Payà ed un suo stretto collaboratore, Harold Cepero, viaggiavano lungo una strada dell’Oriente cubano su un’auto presa in affitto e guidata da Ángel Carromero, un dirigente del PP spagnolo. Assieme a loro anche un attivista svedese, Jens Aron Modig, che però ha sempre sostenuto di nulla sapere della meccanica dell’incidente, in quanto addormentato al momento del fatto.

In circostanze mai definitivamente chiarite, l’auto era uscita di strada andando a sbattere contro un albero ad alta velocità. E, nell’impatto, avevano istantaneamente perso la vita tanto Payà, quanto Cepero. Illesi, invece, Carromero e Modig. Immediatamente dopo il suo arresto, Carromero aveva sostenuto che l’incidente era stato provocato dallo speronamento di un’altra auto, presumibilmente guidata da membri della Seguridad de Estado che da tempo andavano pedinando Payà ed i suoi compagni di viaggio, a Cuba non per turismo, ma in missione politica. Durante il processo lo spagnolo aveva però cambiato versione, di fatto ammettendo la sua piena ed unica responsabilità nell’incidente. Condannato a quattro anni per “omicidio dovuta a guida imprudente”, aveva infine scontato la pena – dopo una trattativa diplomatica tra Cuba e Spagna – nel suo paese di origine, dove aveva riesumato e ulteriormente dettagliato la versione dello speronamento.

Dunque: incidente o omicidio politico? E, se di incidente si è trattato, qual è stata la sua meccanica? Ecco quello che, immediatamente dopo il processo, aveva scritto Ubre Blanca.

“È naturalmente possibile che le cose sia andate davvero come recita la sentenza emessa dai giudici dopo una mezza giornata di processo a porte chiuse (chiuse anche ai famigliari delle vittime). Ed è possibile che la versione dei fatti da Carromero confermata in una situazione di ovvia ricattabilità – l’imputato rischiava una condanna molto superiore per aver sostenuto e finanziato una organizzazione, quella di Payá, considerata illegale – sia la pura e semplice verità. Gli incidenti stradali sono, specie nelle dissestate strade cubane, parte della vita. E Carromero era, notoriamente, un molto spericolato guidatore. L’Ayuntamento di Madrid, dove Carromero viveva, lo aveva multato ben 45 volte per eccesso di velocità e gli aveva, infine, ritirato la patente di guida. Resta tuttavia il fatto che il governo e la magistratura di Cuba (che si identificano l’uno con l’altro) si sono comportati come se davvero avessero qualcosa – e qualcosa di molto sporco – da nascondere. Lo hanno fatto per coprire una turpe verità, o soltanto per l’intrinseca stupidità, per la connaturata abitudine al segreto ed alla menzogna che caratterizza ogni regime dittatoriale?”.

 Domande che, undici anni, restano ancora senza risposta.

Payá aveva raggiunto, per il governo cubano, il massimo della sua “forza sovversiva” quando, paradossalmente, aveva compiuto il meno sovversivo dei suoi gesti. Ovvero: quando, lanciando il cosiddetto “Progetto Varela”, aveva raccolto le firme necessarie per reclamare, in accordo con la Costituzione, un referendum che puntava – in materia di libertà personali – a cambiare punti chiave della legislazione post-rivoluzionaria. Quel referendum venne, a dispetto della sua legalità, preventivamente respinto. E nell’aprile 2003 – in quella che le cronache bollarono come la “primavera negra” – il regime di fatto smantellò, pur senza implicare direttamente Payà, l’intera struttura politica che aveva sorretto il “progetto Varela”. Settantacinque cubani vennero arrestati e, dopo la farsa d’un mega-processo lampo, condannati a pene molto prossime all’ergastolo per quelli che – malamente mascherati dietro l’accusa di tradimento alla Patria – altro non erano che reati d’opinione.

Il Payà che, in quella mattina d’estate viaggiava lungo una periferica strada d’oriente, era un combattente generoso, ma ormai solo, sconfitto e di fatto “innocuo”.  Ucciderlo non avrebbe (e di fatto non ha, se di omicidio si è trattato) portato alcun misurabile vantaggio al regime. Se lo “speronamento” di cui parla Carromero c’è davvero stato, è più che possibile che abbia avuto conseguenze andate molto al di là delle reali intenzioni – semplicemente intimidatorie – della Seguridad. L’unica certezza è, ancor oggi, che non c’è certezza. Quella della morte di Oswaldo Payá è un’altra delle verità negate dal governo di Cuba.

Ecco, comunque, quel che scrive il Washington Post nel suo editoriale.

Il popolo cubano ha perso una voce importante per la democrazia il 22 luglio 2012, quando il leader dell’opposizione Oswaldo Payá e il suo protetto, Harold Cepero, sono morti in un incidente d’auto sospetto lungo una strada di campagna. Ci sono forti prove che sono stati uccisi dalla Seguridad de Estado di Cuba, ma nessuno è mai stato ritenuto responsabile. Ora la Commissione Interamericana sui Diritti Umani ha trovato “prove serie e sufficienti per concludere che gli agenti statali hanno partecipato alla morte” dei due uomini.

La commissione è un organo autonomo dell’Organizzazione degli Stati americani. Cuba è stata tra i fondatori dell’OAS nel 1948, ma è stata sospesa nel 1962, tre anni dopo che Fidel Castro aveva preso il potere, quindi pochissima è l’azione concreta che la commissione può ora intraprendere. Il rapporto è stato richiesto nel 2013 dal Robert F. Kennedy Center for Human Rights. La commissione aveva il governo cubano a partecipare alle udienze sulla morte di Payá, ma non aveva ottenuto risposta.

…la Commissione conclude che lo Stato è responsabile della violazione” dei loro diritti

I risultati sottolineano ancora una volta la necessità di un’indagine approfondita sulle morti. “Il sig. Payá era un difensore dei diritti umani e un leader politico molto visibile, mentre il sig. Cepero era anche un dissidente politico e difensore dei diritti umani”, afferma la relazione. “Entrambi sono stati oggetto di vari atti di violenza, molestie, minacce, attentati alla loro vita, e, infine, un incidente d’auto che ha causato la loro morte.” Gli attacchi contro di loro sono “legati al loro lavoro in difesa dei diritti umani”, conclude la commissione. “Questi erano volti a stigmatizzarli, intimidirli e impedire loro di continuare con tali attività, compromettendo così il loro diritto all’onore e il loro diritto alla libertà di espressione. Di conseguenza, la Commissione conclude che lo Stato è responsabile della violazione” dei loro diritti.

Payá fu l’architetto di un metodo nonviolento di cambiamento, una petizione cittadina chiamata Progetto Varela che cercava la democrazia nella dittatura di Castro. Payá ha immaginato che la petizione avrebbe portato a un referendum nazionale, quindi a libere elezioni. Alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000, ha raccolto più di 35.000 firme a Cuba; i firmatari hanno anche dato i loro indirizzi e numeri di identificazione – si sono alzati per essere contati. Ma Castro ha ignorato i loro appelli e, nella primavera del 2003, ha imprigionato 75 attivisti e giornalisti, molti dei quali erano stati alleati di Payá nella petizione. Sebbene non fosse imprigionato, Payá era costantemente nel mirino del regime. Come riporta il rapporto, Payá e sua moglie sono stati investiti in un altro incidente d’auto sospetto nei mesi precedenti quello che gli ha tolto la vita.

…un’auto con targhe governative blu accelerò e le speronò da dietro

Il loro ultimo giorno, Payá e Cepero erano in viaggio a Santiago de Cuba per attività politica. Sono stati guidati in un’auto a noleggio da Ángel Carromero, un politico spagnolo emergente che era andato a Cuba per prestare assistenza volontaria a Payá, affiancato da un leader politico giovanile svedese, Jens Aron Modig. Mentre si avvicinavano alla città di Bayamo, un’auto con targhe governative blu accelerò e le speronò da dietro, portando Mr. Carromero a perdere il controllo dell’auto a noleggio, che, secondo il racconto ufficiale, ha colpito un albero, causando la morte.

Mr. Carromero è stato condannato per omicidio stradale e condannato a quattro anni di carcere nel mese di ottobre 2012. Cuba ha sempre insistito – durante il processo e dopo – sul fatto che il sig. Carromero stava accelerando e si è assunto la piena responsabilità dell’incidente, e che nessuna auto ha colpito il veicolo di Payá. Dopo essere stato rilasciato per scontare il suo mandato in Spagna nel dicembre 2012, il sig. Carromero ci ha rilasciato un’intervista, dicendo che era stato costretto a una falsa confessione a Cuba. Ha insistito che l’auto a noleggio è stata speronata da dietro. Ciò è confermato dai messaggi inviati il giorno del naufragio da Mr. Modig e Mr. Carromero.

Il caso non è chiuso

Cuba non ha mai alzato un dito per indagare sulla morte di Payá. La moglie di Payá, Ofelia Acevedo Maura, ha più volte richiesto il rapporto dell’autopsia, ma non ne ha mai ricevuto uno. Rimangono molte domande senza risposta sulle morti. Una delle più importanti – alle quali i governo di Cuba non ha risposto nonostante le sollecitazioni della la Commissione della Commissione – è: chi erano gli agenti cubani nella macchina che ha speronato Payá? Chi li ha inviati?

La relazione della Commissione ricorda a tutti una cosa: il caso caso non è chiuso. La famiglia di Payá – e il popolo cubano – meritano di meglio.

Clicca qui per leggere, in inglese, l’articolo originale

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