Friday, March 29, 2024
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“…tutto cominciò con l’arrivo del signor Cason…” II

C’eravamo lasciati con una domanda: perché, nell’aprile del 2003, Fidel Castro non espulse l’allora responsabile della sezione d’interesse degli Stati Uniti, quel ‘señor James Cason’, che in un maratonico discorso televisivo era stato da lui accusato d’essere al centro d’un complotto teso a ‘provocare una guerra tra Cuba e gli Stati Uniti’? Già chiara allora, nel calore degli eventi, la risposta appare oggi, rimirando le cronache di quei giorni, addirittura lapalissiana. James Cason non venne espulso allora – come le accuse di Fidel sembravano pressoché automaticamente implicare – perché era, per il governo cubano, il più perfetto degli alibi, un potentissimo e forse insperato strumento di propaganda. Qualcosa che, non fosse esistito, avrebbero dovuto inventarsi.

Proviamo a riassumere i fatti. Come riportato nel precedente post, il ‘líder máximo’ pronunciò il suo primo “j’accuse” televisivo il 26 aprile del 2003, poche settimane dopo la cosiddetta ‘primavera negra’. E considerato che mai, in nessuna parte del mondo, a un diplomatico pubblicamente accusato di ‘complottare’ era stato risparmiato un (di norma contestuale) decreto d’espulsione, sull’altra sponda dello stretto della Florida già s’erano preparati ad accogliere il ‘martire’ con banda e medaglie. Ma nulla accadde. O meglio: accaddero, nei mesi successivi, moltissime cose, che finirono tuttavia per consumarsi regolarmente in circolo, in una sorta di girotondo scandito sempre dal medesimo ritornello. Cason non solo non venne espulso – non lo fu neppure per ‘reciprocità’, quando, pochi mesi dopo, il governo Usa cacciò come ‘spie’ 14 funzionari della sezione d’interessi cubana a Washington – ma dal regime venne addirittura trasfigurato in una sorta d’onnipresente ed indispensabile simbolo del male. A suo modo, in un’autentica celebrità e, persino, in un cartone animato – ‘Cabo Cason’ era il suo nome – la cui presenza allietava i programmi della di norma piuttosto tetra tv cubana..

James Cason, occorre riconoscerlo, fece di tutto per essere espulso. E il 15 dicembre del 2004 – nel pieno di quella che le cronache del tempo battezzarono la ‘guerra de los adornos’ – addirittura non esitò a predire la propria imminente cacciata nel corso d’una conferenza stampa convocata d’urgenza. ‘Il regime di Castro – disse Cason – minaccia rappresaglie contro questa missione diplomatica a causa del nostro incondizionato appoggio alla coraggiosa lotta della società civile cubana…’. Motivo dell’imminente attacco: gli ornamenti natalizi – tutti caratterizzati dalla presenza del numero ‘75’ (75 come i condannati della ‘primavera negra’) con i quali erano stati per ordine di Cason addobbati il grande albero di natale e le pareti del palazzo del SINA. Ma, ancora una volta, nulla accadde. Il governo cubano rispose agli adorni del señor Cason con una mostra fotografica sulle torture di Abu Ghraib. E la guerra – quella strana guerra che, oltre i fragori della battaglia, tanto assomigliava a una sintonia di comuni intenti – continuò. Fu però proprio in quei giorni, quando riteneva d’essere ormai sulle soglie del martirio, che Cason ‘seppellì il cadavere’. O meglio: fu in quei giorni che, alla presenza d’un gruppo di dissidenti (presenza che era, in pratica, come vedremo, un atto di sottomissione), il diplomatico interrò nei giardini della sua residenza all’Avana, nel corso d’una ‘toccante’ cerimonia, un cofanetto contenente il vero e profondo senso della sua missione cubana.

Che cosa c’era in quel cofanetto, da Cason definito una ‘capsula del tempo’? C’erano molte cose. Cose da riesumare – disse Cason – il giorno in cui a Cuba fosse ‘ritornata la libertà’. Cose, in sé molto belle, anche se interrate nel meno indicato dei luoghi. C’erano i pensieri (pensieri oggi clandestini nella Cuba castrista) dei dissidenti presenti. C’erano il testo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ed una copia della “Fattoria deli animali’ di George Orwell. E c’era un medaglione con inciso, ancora una volta, il numero ‘75’. Ma ad unificare e sovrastare – a sporcare, in effetti – tutto questo c’era anche il testo del discorso con il quale, il 20 maggio del 2002, a Miami, George W. Bush aveva lanciato, contro l’opinione d’una rilevante parte dell’esilio, la sua nuova politica cubana. E fin troppo trasparente era il significato di quel ‘cappello’: se qualcuno di voi pensa che questa cerimonia sia soltanto una manifestazione a favore della libertà o del diritto al dissenso – faceva sapere Cason con quell’aggiunta – si sbaglia di grosso. Questo è, al contrario, soprattutto un inequivocabile atto di consenso nei confronti della politica cubana di George W. Bush. O meglio: è la pubblica riaffermazione della convinzione che solo dal Bush-pensiero – un pensiero dal quale non e dato dissentire – potrà venire il riscatto della libertà perduta. Occorre ammetterlo: se obiettivo dell’evento fosse stato quello di dimostrare il rapporto d’immediata (e “mercenaria” come afferma la propaganda di regime) causa-effetto tra le attività da agit-prop del signor Cason e quelle del dissenso interno, lo stesso Fidel Castro non avrebbe saputo, né potuto, fare di meglio. Perché mai, dunque, Fidel avrebbe dovuto espellere quello che, travestito da sua nemesi, era in realtà una sorta di suo alter ego?

Domanda: che fare oggi di quel ‘cadavere’, simbolo del più cupo momento del cupo passato delle relazioni tra Usa e Cuba? Bello sarebbe se, nel corso d’una nuova cerimonia, qualcuno (magari il nuovo ambasciatore) lo disseppellisse, lo aprisse, restituisse ai dissidenti cubani i loro pensieri invitandoli, non a seppellirli nel giardino di un ambasciata straniera, ma a diffonderli tra i cubani. E ne completasse quindi il contenuto con una copia di quel piccolo concentrato d’infamia che è libro ‘Los disidentes’. Per poi, una volta richiuso, buttarlo a mare, nel punto più profondo delle acque dello stretto della Florida…

Come a dire: quel porterà il futuro, nessuno lo sa. Ma in qualunque direzione cammini, vale la pena sperare che lo faccia senza altri ‘señor Cason’, senza martiri, senza fucilazioni, senza prigionieri di coscienza e senza sbirri trasformati in eroi…

 

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