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    La guerra (fredda) è finita…

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    By Ubre Blanca on 17 Dicembre 2014 cuba

    Pochi se l’aspettavano. E forse neppure gli editorialisti del New York Times – dallo scorso ottobre protagonisti d’una vera e propria campagna a favore della normalizzazione dei rapporti con Cuba – avevano pensato che la novità potesse arrivare così, tutta d’un botto. Eppure proprio questo è accaduto. Ieri – anticipata da un flash di Abc-news – s’è diffusa la notizia d’un imminente ‘scambio di prigionieri’ tra gli Stati Uniti e Cuba. Quello – da molti auspicato, ma dai più giudicato impossibile – tra il contrattista Alan Gross, in carcere a Cuba dal 2009 ed intento a scontare una pena a 15 anni, ed i famosi ‘cinco héroes’. Ovvero: i cinque eroi cubani (in realtà ormai ridotti a tre), la cui liberazione il governo dell’Avana va da tre lustri reclamando in ogni sede. E presto a questa già in sé straordinaria notizia, se ne è aggiunta un’altra, ancor più inattesa e carica di conseguenze: quella del ripristino di piene relazioni diplomatiche tra i due paesi. Non è ancora la fine dell’embargo. Ma è probabilmente l’inizio della sua irrilevanza. Non siamo di fronte alla fine d’una legge. Siamo, se dio vuole, di fronte alla fine d’un epoca – quella della Guerra Fredda – in questa parte del mondo ottusamente sopravvissuta a se stessa.

    Ma partiamo, come si usa dire, dai fatti. Chi sono gli ‘scambiati’? Alan Gross ed i tre detenuti cubani (dei cinque originali, due, René González e Fernando González già sono stati liberati per aver scontato la pena) sono, secondo i giudici che li hanno condannati, delle ‘spie’. Ma lo sono, in entrambi i casi, in modo assai particolare. Alan Gross non è in realtà che il ‘subappaltatore’ d’un programma di ‘miglioramento delle comunicazioni’, varato anni fa dall’Usaid (Us Agency for International Development) come parte del confuso arcipelago di iniziative – un vero e proprio festival dello spreco come molte inchieste hanno ben documentato – tra le cui sparpagliate isole gli Usa vanno consumando (o dilapidando) i circa venti milioni di dollari all’anno, dal Congresso stanziati per ‘favorire il ritorno della democrazia a Cuba’. Compito di Gross era quello di introdurre clandestinamente a Cuba, per conto della Dai (Development Alternatives Inc.), impresa privata alla quale l’USAID aveva affidato il suo progetto, apparati tecnologici perlopiù destinati a garantire una connessione ad internet. Arrestato nel dicembre del 2009 all’aeroporto dell’Avana, Gross venne due anni dopo condannato a 15 anni di carcere. E fin troppo chiaro fu, dall’inizio il significato di quella severissima sentenza. Gross era a tutti gli effetti diventato un oggetto di scambio, un ostaggio. Se lo rivolete – questo era l’ovvio messaggio agli Usa – liberate ‘los cinco’, eroi e martiri della vostra ingiustizia.

    Ovvia domanda: perché Cuba – molte delle cui spie sono in passato finite nelle carceri statunitensi e lì sono state senza problemi dimenticate – è andata per tanti anni, e con tanta forza, propugnando il ritorno a casa dei suoi ‘cinque eroi’? Perché i cinque – parte d’una rete che, chiamata ‘Red Avispa’, era forte di 25 elementi, molti dei quali finirono per collaborare con la giustizia Usa – non erano spie, ma ‘combattenti antiterroristi’. Vale a dire: perché il loro compito non era, secondo il governo cubano, quello di spiare gli USA, bensì quello di infiltrare quei gruppi di esuli che, con il più o meno passivo beneplacito delle autorità statunitensi, per mezzo secolo sono andati preparando attacchi armati contro Cuba. In molti casi, veri e propri atti di terrore. Il più grave, sanguinoso ed ancora impunito: la bomba che nel 1976 distrusse l’aereo che riportava a Cuba la nazionale di scherma reduce da una gara alle Barbados, provocando la morte di 73 persone.

    La storia de ‘los cinco’ (o, più propriamente, dei 25 della ‘Red Avispa’) è, prevedibilmente, molto più complessa di quella che il governo cubano è solito raccontare. Ma non v’è dubbio che la tesi di fondo di quel racconto abbia solidissime basi storiche. Così come indubbio è anche il fatto che il processo che condannò i cinque si svolse in un clima avvelenato dalle pressioni della comunità cubana e dalla convinzione – giuridicamente molto forzata – che gli imputati avessero infiltrato strutture militari statunitesi (accuse basate su prove rimaste segrete) e che avessero avuto un ruolo di rilievo  in un episodio davvero infame: quello che, nel febbraio del ’96, vide i MIG dell’aviazione cubana abbattere due piccoli aerei civili della organizzazione ‘Los hermanos al rescate’, dedita al salvataggio dei ‘balseros’ (i cubani che lasciano l’isola su imbarcazioni di fortuna) ed a qualche incursione disarmata nei cieli di Cuba per lanciare volantini.

    Due storie diverse, quelle di Alan Gross e dei ‘cinque’. Diverse, ma parte di una stessa storia. Quella per troppe volte replicata, sempre uguale a se stessa, immutabile e macabra come una salma imbalsamata, delle relazioni tra Usa e Cuba. L’embargo contro Cuba, simbolo d’una ingiustizia diventata la caricatura di se stessa, non muore oggi. Né probabilmente morirà domani visto che solo il Congresso – cosa da escludere con le attuali maggioranze – può firmare il suo certificato di morte. E gia c’e chi parla di un ‘regalo fatto a una dittatura’. Quello che però oggi davvero conta è che, tra Usa e Cuba, dopo quarant’anni di letargo, la politica è – nel bene o nel male, si vedrà – tornata a vivere. La storia, finalmente, ha ricominciato a camminare. E quando cammina la Storia, cammina anche la democrazia.

     

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